Sono emozionata quando con Enrico mi avvio sul lungotevere per raggiungere Casa, il ristorante che Vinicio Marchioni ha aperto con il fratello Massimo, 7 anni fa. Conosco e seguo Vinicio da molto tempo, ormai. Attore di talento, uomo colto e sensibile, il suo fascino e il suo punto di forza sono la normalità. Niente luci e vita mondana, semplicemente un uomo che fa un mestiere che ama: quello di attore. Quando parla del suo lavoro trasmette quella passione con la quale riesce a far vibrare i suoi personaggi, rendendoli veri, umani, credibili.
Dal freddo di Romanzo criminale ad Arturo, lo chef stellato di Quanto basta, Vinicio non interpreta un ruolo, ma si spoglia mettendo se stesso e il proprio corpo al servizio del personaggio. Pieno d’interessi e di passioni, ogni lunedì nel suo ristorante romano, Vinicio legge, in dialetto romanesco, romanzi, racconti e opere teatrali, in compagnia di colleghi e amici.
Non sono una giornalista e quella che vi propongo non è un’intervista formale, ma una chiacchierata per conoscere meglio Vinicio uomo, attore e, perchè no, anche ristoratore! 🙂
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Cinema e cibo sono sicuramente un binomio vincente. Film come Un americano a Roma, Pane amore e fantasia, la dolce vita, miseria e nobiltà, il gattopardo sono solo alcuni dei tantissimi film di successo in cui il cibo riveste un ruolo importante. Attraverso i film vengono analizzati molteplici aspetti della vita umana.
Vinicio tu che rapporto hai con il cibo?
Ho un ottimo rapporto con il cibo. La tavola per me è un luogo d’incontro, un modo per conoscere meglio le persone, per condividere esperienze, per accogliere. Sono convinto che il cibo e un buon bicchiere di vino possano eliminare ogni differenza e facilitare la conoscenza e il dialogo.
Gestisci un ristorante al centro di Roma, con tuo fratello Massimo. Com’è nato questo progetto?
Fin da ragazzini, io e mio fratello Massimo abbiamo fatto davvero tanti mestieri. Lui, spesso, lavorava nelle cucine dei ristoranti come aiuto cuoco, io in sala come cameriere. La gastronomia e l’amore per la tavola e per la preparazione e condivisione del cibo, è sempre stata una nostra passione. Massimo ha lavorato diversi anni in Inghilterra come food and beverage manager e, tornato a Roma, ha lavorato al ristorante Doney dell’Excelsior. Ad un certo punto della nostra vita, ci siamo detti “proviamoci!” e nel 2011 abbiamo aperto Casa, il nostro ristorante. L’idea era quella di creare un posto accogliente in cui la gente potesse sentirsi a casa. Siamo al centro di Roma, a soli 500 mt da Piazza del Popolo, abbiamo una cucina piccola e un menu semplice con 5 antipasti, 5 primi e 5 secondi. Prepariamo tutto al momento, utilizzando materie prime fresche e di stagione. Mia madre viene tre volte a settimana a darci una mano: è lei che prepara i dolci! Dopo 7 anni, siamo ancora qui!
C’è un piatto che ti lega ad un ricordo, ad una persona, ad un momento particolare della tua vita?
Si, la minestra di pesce di mia nonna. Da bambino, ricordo che rientrando dal mare sentivo il profumo della sua minestra. Era estate, faceva caldo, eppure lei preparava la minestra! Credo di essere stato l’unico ragazzino con una nonna calabrese che non sapeva cucinare e proprio per questo motivo ci preparava le minestre! Quell’odore, quel sapore, ancora adesso, mi ricordano tantissimo mia nonna!
Hai mai utilizzato la tavola e il cibo, per comunicare qualcosa d’importante a qualcuno?
No, io no. Mia moglie Milena mi ha conquistato con un piatto. Lei è davvero un’ottima cuoca. Però posso dire che i film che mi hanno dato grandi possibilità sono nati quasi sempre da un pranzo o da un incontro attorno ad un tavolo, perché davanti ad un bicchiere di vino si parla meglio di qualsiasi cosa.
Tuo padre era calabrese, sicuramente sarai abituato ai pranzi lunghi e affollati di amici e parenti…
Mi viene in mente il primo capodanno che ho trascorso in Calabria. Ero a casa di amici e la mamma di uno di questi amici aveva cucinato per tutti preparando 13 portate! Ovviamente 13 erano solo le portate principali! Poi, c’erano i contorni e gli ammennicoli. Fu una cena memorabile e infinita! Ricordo che ci sedemmo a tavola verso le 19,30 e già alle 22 il mio fegato era ormai distrutto!
All’inizio, quando non eri ancora un attore affermato ma sognavi di fare questo lavoro, ci sono stati dei momenti in cui ha avuto voglia di mollare?
Si, tanti momenti. C’è stato un periodo, agli inizi, in cui volevo mollare tutto e trasferirmi in Calabria. Prima di Romanzo Criminale, ho fatto teatro per circa 10 anni e non è stato facile. Questo è un mestiere che puoi fare per anni senza essere riconosciuto come attore da nessuno e finché non ti viene riconosciuto il fatto di essere un attore, è come se non esistessi. Quello che mi ha fatto continuare, nonostante la fatica e le difficoltà, è stato l’amore e la passione per questo mestiere.
Cosa significa per te fare l’attore?
Fare l’attore per me significa inseguire un sogno, avere la possibilità di esprimermi e comunicare dei sogni anche agli altri. L’attore, per come lo intendo io, è un tramite, non il protagonista. Sei un protagonista vero e reale quando accetti di fare da tramite. Il pubblico, chi ha scritto la storia, i temi che stai portando in scena, sono più importanti di te. L’umiltà, in questo mestiere, è una delle qualità più importanti.
Sei stato sostenuto dalla tua famiglia in questa scelta?
Assolutamente si. Mia madre mi ha sempre lasciato libero di scegliere la mia strada. All’inizio è stato difficile. Per poter fare questo mestiere, senza pesare economicamente sulla mia famiglia, ho dovuto ovviamente fare molti altri mestieri. Ho sempre saputo di voler fare l’attore, non ero convinto di riuscirci, e ci sono stati dei periodi in cui mi sentivo sfiancato, ma sono andato sempre avanti. Lavoravo tutto l’anno, facendo il cameriere, per potermi permettere di stare su un palcoscenico anche solo tre settimane!
Hai interpretato ruoli molto diversi tra loro, c’è un ruolo che ti ha toccato profondamente e ha cambiato qualcosa del tuo modo d’essere?
Non uno in particolare, direi quasi tutti. Faccio il mestiere più bello del mondo. Mi pagano per conoscere meglio me stesso. Recitare un ruolo ti permette di aprire delle porte dentro di te e di esplorare mondi che altrimenti non avresti la possibilità di conoscere. È una grande forma di autoconoscenza.
E’ uscito nelle sale ad aprile Quanto basta, film diretto da Francesco Falasca e interpretato da te, Valeria Solarino e Luigi Fedele. In questo film la cucina diventa il luogo in cui s’incontrano due mondi molto diversi: da una parte Arturo, chef di grande talento, dall’altra un gruppo di ragazzi autistici. Il cibo diventa il linguaggio con cui personaggi molto diversi comunicano. Tu interpreti uno chef stellato dal carattere molto aggressivo.
Ti sei ispirato a qualcuno per poter interpretare questo personaggio?
No, non guardo molto la tv e non seguo i programmi di cucina. Quanto basta è un film che tratta temi profondi e difficili con una grazia e una leggerezza non comune nel cinema. La cucina fa da sfondo ad un racconto in cui le diversità e i problemi vengono superate grazie all’amicizia e c’è un ribaltamento di ruoli perché, alla fine, è Arturo, lo chef stellato che dovrebbe insegnare la cucina a questi ragazzi, ad avere più bisogno d’aiuto e ad imparare molto da questa esperienza.
Sei a teatro, in veste di attore e regista, con Uno zio Vanja, di Anton Cechov. Leggendo questo grande capolavoro, mi colpisce l’inerzia, la rassegnazione dei personaggi, la sensazione che non ci sia una speranza di rivalsa…
Anton Cechov, a differenza di altri grandi drammaturghi, non ha scritto una morale chiara, non ha scritto “una speranza c’è” o “una speranza non c’è” per l’umanità, lui ha scritto “una speranza ci deve essere! Nonostante tutto”. In quel “ci deve essere!” chiama in causa, secondo me, ognuno di noi.
La domanda che ognuno di noi deve rivolgere a se stesso è “cosa posso fare io affinchè nella mia vita una speranza ci sia? Come posso cambiare la mia rotta e il mio destino?” Arriva nella vita di ognuno un momento in cui guardando indietro ci si chiede “ma dove sono andati a finire gli ultimi 30 anni? Cos’è successo, perché mi ritrovo a questo punto?” Capita a tutti. È una presa di coscienza. E i testi di Cechov, più o meno, parlano anche di questo.
Spesso l’uomo si arrende e accetta la sua condizione?
Accettare la propria condizione è già molto perché significa prendere atto di qualcosa di positivo che c’è in quella condizione, quando la si accetta davvero. Molto spesso il tormento più grande dell’uomo è proprio la non accettazione. Accettare una condizione non vuol dire accontentarsi, ma dire a se stessi “ok, sono arrivato a questo punto, non mi sta bene e faccio il possibile per cambiare”.
Tu cosa hai dovuto accettare di te?
Tantissime cose. L’insicurezza, la schizofrenia… Se non avessi fatto questo mestiere non so in quale altro modo avrei potuto esprimere la mia schizofrenia! Schizofrenia, fortunatamente non in senso patologico! Ho accettato il fatto di essere un compulsivo e un ipercritico, ho accettato il fatto di non esserci quasi mai per le persone più importanti della mia vita, perché questo è un mestiere bellissimo ma ti porta quasi sempre a non esserci nelle occasioni importanti e nei momenti difficili…
Cosa consiglieresti a chi sta lottando per realizzare un progetto e inseguire un sogno…
Di andare avanti, di fare. I più grandi uomini e personaggi della storia hanno semplicemente fatto quello che volevano fare. Non hanno detto, non si sono lamentati, ma hanno deciso di fare. Bisogna fare. La vita corre troppo velocemente, me ne rendo conto soprattutto da quando sono diventato padre. Quindi, l’unico consiglio che mi sento di dare è quello di fare… sempre!
Vinicio, siamo nel tuo ristorante e io ho un blog di cucina, mi dai la tua ricetta della felicità?
Non ho una ricetta della felicità. Sicuramente è importante inseguirla… inseguirla sempre e riconoscerla nelle piccole cose…
https://www.instagram.com/p/Bk5CHhoDKx8/?taken-by=vinicio_marchioni
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